Forse stiamo sottovalutando la portata della storia del ritorno del lupo in Italia. Due generazioni fa, sembrava una specie condannata all’estinzione, l’Italia era destinata a non essere un paese per lupi. Poi tutto è cambiato.

Fonte: Newsletter Areale, 21 maggio 2022

Questa settimana è uscito il primo monitoraggio nazionale coordinato dall’Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) e i numeri hanno confermato una tendenza osservata già da anni nelle aree interne del nostro paese: il lupo si è ripreso l’Italia. I dati di questi due anni di lavoro sul campo ci dicono che sono 3.300 gli esemplari in questo momento sul nostro territorio, circa 950 sull’arco alpino e 2.400 lungo il resto della penisola italiana. L’areale del lupo in Italia è di 41.600 km2 sulle Alpi e 108.500 km2 nel resto della penisola, dove quasi ogni ambiente idoneo è stato colonizzato.

Ne ho parlato con Francesca Marucco, zoologa specializzata in lupi, che lavora al dipartimento Scienze della vita e Biologia dell’Università di Torino. Mi ha dato le proporzioni di questa ricolonizzazione alpina (l’ambiente dove l’ateneo di Torino ha fatto da coordinamento per il monitoraggio Ispra): «Quando ho iniziato a occuparmene, negli anni Novanta, su tutte le Alpi c’erano tre branchi di lupi. Oggi i branchi sulle Alpi sono 124». È successo in trent’anni.

Quella del lupo è una delle grandi storie di conservazione italiana, di come siamo passati dal cacciarli attivamente alla protezione integrale. Una delle tappe fondamentali, dal punto di vista culturale e sociale, fu l’Operazione San Francesco, all’inizio degli anni Settanta. Era una campagna di sensibilizzazione promossa dal Parco nazionale d’Abruzzo e dal giovane WWF Italia, che pescava dall’immaginario nativo nordamericano e dall’animalismo del santo patrono d’Italia. «Con tutti gli esseri, e con tutte le cose, noi saremo fratelli», era il motto.

Nel 1971 il decreto Natali proibisce esche e bocconi avvelenati, e cinque anni dopo, col decreto Marcora, il lupo diventa specie integralmente protetta. Il resto lo ha fatto l’evoluzione del nostro territorio: il lupo è tornato anche perché il bosco è tornato, in Italia.

La crescita della popolazione è stata graduale, come racconta Marucco. «I primi branchi hanno preso gli habitat migliori, quelli più montani e selvatici, gli altri si sono dovuti accontentare di habitat di serie b».

I lupi sono animali territoriali, lo spazio di un branco non si sovrappone a quello di un altro, e piano piano l’areale diventa un mosaico di questa colonizzazione, che a nord ha avuto un andamento concentrico: dalla montagna verso le aree di pianura e dalle Alpi occidentali verso quelle orientali, dove il lupo si è congiunto con la popolazione in arrivo dalla Slovenia. Qualche anno fa è nato il primo branco «misto», in Lessinia, nel veronese, composto da due popolazioni che per secoli erano state separate.

La storia del lupo è diversa da quella dell’orso, perché è stata molto più naturale e molto meno «indotta» dalla mano umana, i lupi hanno fatto da soli, insomma. «Sono molto più adattabili e opportunisti degli orsi, hanno colto il cambiamento del contesto, più prede, più foreste, è stato un processo naturale dal punto di vista della gestione». Le interazioni tra i due grandi carnivori sono poche e non documentate, «ma l’orso spesso beneficia delle carcasse delle prede del lupo». Lavoro di squadra, insomma.

Il monitoraggio è una storia nella storia: col coordinamento di Ispra si sono mosse 3mila persone, tra cui 1.500 volontari di WWF, CAI, Legambiente, Lipu. Hanno percorso 85mila chilometri in due anni. A piedi. «È stato massacrante», conferma Marucco. Per altro, il lupo in questi monitoraggi lo si vede davvero molto poco. È tutto un lavoro di osservazione dello spazio, deduzione, statistica. Hanno raccolto migliaia di escrementi, tracce, carcasse, avvistamenti fotografici. «Tendenzialmente, non è un animale che si fa avvistare, è molto diffidente, a volte succede, ma non è un obiettivo del monitoraggio».

E com’è, vedere un lupo? «Noi siamo persone di scienza, tendiamo a non fare sovrapposizioni emotive e sentimentali con come ci sentiamo. Ma è sicuramente interessante». Un altro strumento per contare i lupi sono gli ululati fatti partire dai registratori e amplificati nel bosco dai megafoni. Gli animali reagiscono, la ricercatrice prende appunti. «Ci interessa soprattutto per capire come sta andando la riproduzione, per sentire la voce dei cuccioli che rispondono». A volte, in vista di lunghe camminate in foresta, non ci si porta tutta l’attrezzatura e il richiamo al lupo viene fatto a voce. La ricercatrice in questo caso ulula, il giovane lupo risponde, la ricercatrice prende appunti. «È qualcosa che dobbiamo imparare, non è difficile, con un po’ di pratica». Un romanzo di Cormac McCarthy in Lessinia, quasi.

Il futuro del lupo in Italia è la convivenza con gli umani: «Non siamo nel Montana, dove ho lavorato negli anni Novanta, lì c’è tutto lo spazio che serve e il mondo sembra ancora allo stato naturale. Qui il livello di antropizzazione è altissimo, c’è tanta gente, tante attività, tutte le azioni vanno nella direzione della sostenibilità umana, sociale e ambientale». Un pezzo enorme è l’educazione: spesso ci sono più problemi di convivenza dove ci sono ancora pochi lupi, perché sono appena arrivati e le persone non sono abituate. Lì dove la coabitazione sul territorio si consolida, le persone imparano, i conflitti calano. «Altro grande problema: l’ibridazione con il cane, soprattutto in Appennino. È la principale minaccia al futuro della specie: tutti gli esemplari ibridi sarebbero da catturare e sterilizzare».